La
storia moderna di Nettuno e Porto d'Anzio, come narra Ademollo nel suo scritto
“Anzio e Nettuno dal secolo decimosesto a decimottavo” del 1886, comincia con
la vendita, effettuata nel 23 settembre 1594 dal conestabile Marc'Antonio
Colonna, figliuolo. del vincitore di Lepanto, al Papa Clemente VIII, nonostante
il tanto amore che i Colonnesi portavano a quei luoghi, quanto gli Orsini a
Palo. Le due grandi casate Romane, di qua e di là dalla Capitale, quasi ad
uguale distanza si appoggiavano sul mare, dove le due famiglie per diverse
strade si recavano a diporto e dove i giovani dell’una e dell'altra si
addestravano nei rudimenti dell'arte marinaresca. Da quelle rive scoccarono le
prime scintille che dovevano accendere il genio di Marcantonio e di Fabrizio
Colonna, di Virginio e di Flaminio Orsini, celebri tra i Capitani del mare nel
secolo decimo-sesto. Il Colonna amava la «terra di Nettuno con la rocca,
palazzo, abitazione, giurisdizione insieme con tutto il territorio, torre
d'Astura, porto d'Anzio, pascoli, selve, mare ed in effetti tutto quello che
detto contestabile possedeva da quelle parti». Circa l’aspetto e l’importanza
della terra di Nettuno prima dell’epoca accennata, scrive il padre Guglielmotti
che «posta di mezzo tra la punta di Astura ed il Capo d'Anzio, nel fondo di un
golfo arenoso, tornava di grande comodità al rifugio delle piccole barche da
traffico e da presa, nell'andare e venire a Roma da Napoli e da Gaeta: tanto
più che la città di Anzio da più secoli distrutta ed il porto Neroniano anche
prima interrito, non potevano ne render servizio, né richiamar l'attenzione di
amici e nemici. I Colonnesi possedevano Nettuno in feudo, ma non lo avevano
ancora fortificato alla moderna; soltanto il Duca Valentino al principio del
secolo decimo-sesto, impadronitosi della terra, si era pur dato gran cura di
aggiungere all’antica cinta di cortine e di torri quella bellissima fortezzina
uno dei più insigni monumenti dell'arte primitiva» e di Anzio, sempre della
stessa epoca, lo storico della Marina Pontificia dice che «nulla più quasi
rimaneva della nobile città e del magnifico porto, che una sola torre sul
promontorio, chiamata la torre di Capo d’Anzio. Appresso a quella, richiesto
immediatamente da papa Pio IV, Marcantonio Colonna edificò altre due torri. La
prima nell’insenatura a due miglia dal capo, verso Roma, cui dette il nome di
Materna, in segno di filiale pietà verso la madre, donna Giovanna d’Aragona,
principessa d’alto senno, con la quale visse sempre concorde. L’altra torre fu
detta delle Caldane, perché costruita presso a certi laghetti d’acque termali e
fumanti. Colà lo stesso Marcantonio aveva posto la raffineria dello zolfo
nativo; le cui risposte dovevano andare alle fortificazioni di Nettuno ed alle
torri della marina. A queste torri Pio IV aveva assegnate le artiglierie, le
munizioni e cento scudi ogni mese per lo stipendio dei soldati. La prima pietra
del risorgimento Anziate pose colle sue mani Marcantonio Colonna quando armò la
torre del Capo e costruì le due vicine. Egli cessò la solitudine, crebbe le
visite, raccolse gli ammiratori, promosse la cultura e per l'amenità del sito e
per le laudi dei classici fece brillare disegni di grande importanza nella
mente di Sisto V e di Clemente VIII». Le donne nettunesi «In gonna rossa e col turbante in testa» erano dunque al principio
del secolo decimo-settimo la gran curiosità di quei luoghi. Bartolomeo Piazza
che vide a Roma la gente di Nettuno nelle processioni degli anni santi 1675 e
1700, dice dei costumi nettunesi: L'abito degli uomini, ma più delle donne
nelle religiose e devote processioni, che per venerare le sante Basiliche di
Roma usavano; nelle quali in un abito graziosamente modesto e giudiziosamente
umile e vagamente sincero, ricordavano le antiche usanze dei popoli Latini
conservate con più studio di qualsiasi altro castello del Lazio da queste
Nettunesi e ciò che più recava motivo di curiosa osservazione, la diversità
degli abiti medesimi dalle maritate, dalle vedove, dalle zitelle, tanto nella
forma quanto nella diversità dei colori, dove con savia distinzione era
ammirevole la gravità del portamento delle prime; la serietà ed abiezione delle
seconde e la modestia innocente delle terze e perché usavano alcuni ornamenti
ancora propri degl'Imperatori, del Papa e Vescovi, come i sandali, la porpora
ed altro, durò fatica Gregorio XIII a ridurli in un abito antico si, ma
comunale, con la spesa della camera per la prima volta». Quest’ingerenza papale
nel figurino di abbigliamenti muliebri è abbastanza curiosa. Pare che Gregorio
XIII preparandosi per tempo all’anno santo del 1575, volesse provvedere onde
non so mostrassero per Roma nelle processioni religiose donne in abito succinto
come quello delle nettunesi, la cui gonnella arrivava appena al ginocchio.
Perciò nel 1572 promise premi alle comari di Nettuno che allungassero la veste
fino al collo del piede e comminò castighi a chi non obbedisse, ma la riforma,
che si estese anche alla così detta “Antricella”, cintura tessuta di seta,
argento ed oro, dalla quale pendevano campanelli argentei o dorati, non fu
facile, quantunque la camera apostolica ne facesse le spese ed in ogni modo
restò la gonna rossa ed il turbante alla turca composto di bende chiamate
“Mantricelle” in oro e seta di svariati colori con le due estremità ricadenti
sugli omeri che durò fino ai primi del secolo decimo-ottavo. Nonostante la
riforma peraltro ed i successivi cambiamenti, il vestiario delle donne di Nettuno,
belle di carnagione e di colorito, è rimasto singolare e splendido per dovizia
di stoffe e di ornamenti d’oro e d’argento. Le camicie aperte sul petto sono
ornate di un merletto di loro lavoro speciale che dal collo discende fino a
quel punto dal quale prende il nome di “Capezzo”. La vesta senza maniche, che
chiamano “Guarnaccia” e che dalle spalle scende fino alle calcagna, nella parte
superiore è stretta ai fianchi rimanendo sempre aperta sul petto e ricchissima
di pieghe nella parte inferiore. Sulla veste un corsaletto a vita, aperto
anch’esso sul petto e chiuso con pezza di drappo ricamato con due file di trine
d’oro ed argento per le maritate, una sola per le zitelle. Guarnaccia e
corsaletto di colore scarlatto vivissimo, sono ornati alle estremità con
merletti o trine, al solito d’oro o
argento, ai quali ornamenti le zitelle surrogano un nastro verde simile a
quelle che intrecciano nei capelli e che per le maritate è invece rosso e per
le vedove paonazzo. In luogo dei “Borzacchini” alla turchesca soppressi per
l’allungamento delle gonne, le nettunesi calzano oggi pianelle di panno rosso o
di pelle inargentata, a guisa di sandali ed in luogo del turbante coprono la
testa con un tovagliolo di lino che anche questo finisce con guarnizioni di
oro, argento e seta a più colori. Con siffatto abbigliamento le donne di
Nettuno si vedono in giro verso la sera dei giorni festivi, specie per andare
alla Madonna di san Rocco in compagnia dei loro mariti o parenti. Una recente
comparsa solenne il costume saraceno delle nettunesi la fece nel banchetto per l'inaugurazione
della ferrovia nel 23 marzo 1884. In quell'occasione lo vide Eugenio Checchi
che scrisse in proposito: «Le sei
giovanette erano sfavillanti in quelle gonne di raso solferino, con guarnizioni
d'argento, sormontate da un camiciotto della medesima stoffa ricchissimo di
ricami, pure in argento e con quella bizzarra tovaglia in capo di stoffa
trapunta. Avevano tutt'e sei il costume di sposa adottato per la circostanza,
con monili di perle e ricche collane e la qualità di sposa risulta dal nastro
rosso attorcigliato come una treccia nei capelli. Gentilissime tutt'e sei,
rispondevano con sorridente disinvoltura alle domande dei curiosi ammirati».
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