giovedì 7 gennaio 2021

La storia moderna di Nettuno e Porto d'Anzio






La storia moderna di Nettuno e Porto d'Anzio, come narra Ademollo nel suo scritto “Anzio e Nettuno dal secolo decimosesto a decimottavo” del 1886, comincia con la vendita, effettuata nel 23 settembre 1594 dal conestabile Marc'Antonio Colonna, figliuolo. del vincitore di Lepanto, al Papa Clemente VIII, nonostante il tanto amore che i Colonnesi portavano a quei luoghi, quanto gli Orsini a Palo. Le due grandi casate Romane, di qua e di là dalla Capitale, quasi ad uguale distanza si appoggiavano sul mare, dove le due famiglie per diverse strade si recavano a diporto e dove i giovani dell’una e dell'altra si addestravano nei rudimenti dell'arte marinaresca. Da quelle rive scoccarono le prime scintille che dovevano accendere il genio di Marcantonio e di Fabrizio Colonna, di Virginio e di Flaminio Orsini, celebri tra i Capitani del mare nel secolo decimo-sesto. Il Colonna amava la «terra di Nettuno con la rocca, palazzo, abitazione, giurisdizione insieme con tutto il territorio, torre d'Astura, porto d'Anzio, pascoli, selve, mare ed in effetti tutto quello che detto contestabile possedeva da quelle parti». Circa l’aspetto e l’importanza della terra di Nettuno prima dell’epoca accennata, scrive il padre Guglielmotti che «posta di mezzo tra la punta di Astura ed il Capo d'Anzio, nel fondo di un golfo arenoso, tornava di grande comodità al rifugio delle piccole barche da traffico e da presa, nell'andare e venire a Roma da Napoli e da Gaeta: tanto più che la città di Anzio da più secoli distrutta ed il porto Neroniano anche prima interrito, non potevano ne render servizio, né richiamar l'attenzione di amici e nemici. I Colonnesi possedevano Nettuno in feudo, ma non lo avevano ancora fortificato alla moderna; soltanto il Duca Valentino al principio del secolo decimo-sesto, impadronitosi della terra, si era pur dato gran cura di aggiungere all’antica cinta di cortine e di torri quella bellissima fortezzina uno dei più insigni monumenti dell'arte primitiva» e di Anzio, sempre della stessa epoca, lo storico della Marina Pontificia dice che «nulla più quasi rimaneva della nobile città e del magnifico porto, che una sola torre sul promontorio, chiamata la torre di Capo d’Anzio. Appresso a quella, richiesto immediatamente da papa Pio IV, Marcantonio Colonna edificò altre due torri. La prima nell’insenatura a due miglia dal capo, verso Roma, cui dette il nome di Materna, in segno di filiale pietà verso la madre, donna Giovanna d’Aragona, principessa d’alto senno, con la quale visse sempre concorde. L’altra torre fu detta delle Caldane, perché costruita presso a certi laghetti d’acque termali e fumanti. Colà lo stesso Marcantonio aveva posto la raffineria dello zolfo nativo; le cui risposte dovevano andare alle fortificazioni di Nettuno ed alle torri della marina. A queste torri Pio IV aveva assegnate le artiglierie, le munizioni e cento scudi ogni mese per lo stipendio dei soldati. La prima pietra del risorgimento Anziate pose colle sue mani Marcantonio Colonna quando armò la torre del Capo e costruì le due vicine. Egli cessò la solitudine, crebbe le visite, raccolse gli ammiratori, promosse la cultura e per l'amenità del sito e per le laudi dei classici fece brillare disegni di grande importanza nella mente di Sisto V e di Clemente VIII». Le donne nettunesi «In gonna rossa e col turbante in testa» erano dunque al principio del secolo decimo-settimo la gran curiosità di quei luoghi. Bartolomeo Piazza che vide a Roma la gente di Nettuno nelle processioni degli anni santi 1675 e 1700, dice dei costumi nettunesi: L'abito degli uomini, ma più delle donne nelle religiose e devote processioni, che per venerare le sante Basiliche di Roma usavano; nelle quali in un abito graziosamente modesto e giudiziosamente umile e vagamente sincero, ricordavano le antiche usanze dei popoli Latini conservate con più studio di qualsiasi altro castello del Lazio da queste Nettunesi e ciò che più recava motivo di curiosa osservazione, la diversità degli abiti medesimi dalle maritate, dalle vedove, dalle zitelle, tanto nella forma quanto nella diversità dei colori, dove con savia distinzione era ammirevole la gravità del portamento delle prime; la serietà ed abiezione delle seconde e la modestia innocente delle terze e perché usavano alcuni ornamenti ancora propri degl'Imperatori, del Papa e Vescovi, come i sandali, la porpora ed altro, durò fatica Gregorio XIII a ridurli in un abito antico si, ma comunale, con la spesa della camera per la prima volta». Quest’ingerenza papale nel figurino di abbigliamenti muliebri è abbastanza curiosa. Pare che Gregorio XIII preparandosi per tempo all’anno santo del 1575, volesse provvedere onde non so mostrassero per Roma nelle processioni religiose donne in abito succinto come quello delle nettunesi, la cui gonnella arrivava appena al ginocchio. Perciò nel 1572 promise premi alle comari di Nettuno che allungassero la veste fino al collo del piede e comminò castighi a chi non obbedisse, ma la riforma, che si estese anche alla così detta “Antricella”, cintura tessuta di seta, argento ed oro, dalla quale pendevano campanelli argentei o dorati, non fu facile, quantunque la camera apostolica ne facesse le spese ed in ogni modo restò la gonna rossa ed il turbante alla turca composto di bende chiamate “Mantricelle” in oro e seta di svariati colori con le due estremità ricadenti sugli omeri che durò fino ai primi del secolo decimo-ottavo. Nonostante la riforma peraltro ed i successivi cambiamenti, il vestiario delle donne di Nettuno, belle di carnagione e di colorito, è rimasto singolare e splendido per dovizia di stoffe e di ornamenti d’oro e d’argento. Le camicie aperte sul petto sono ornate di un merletto di loro lavoro speciale che dal collo discende fino a quel punto dal quale prende il nome di “Capezzo”. La vesta senza maniche, che chiamano “Guarnaccia” e che dalle spalle scende fino alle calcagna, nella parte superiore è stretta ai fianchi rimanendo sempre aperta sul petto e ricchissima di pieghe nella parte inferiore. Sulla veste un corsaletto a vita, aperto anch’esso sul petto e chiuso con pezza di drappo ricamato con due file di trine d’oro ed argento per le maritate, una sola per le zitelle. Guarnaccia e corsaletto di colore scarlatto vivissimo, sono ornati alle estremità con merletti  o trine, al solito d’oro o argento, ai quali ornamenti le zitelle surrogano un nastro verde simile a quelle che intrecciano nei capelli e che per le maritate è invece rosso e per le vedove paonazzo. In luogo dei “Borzacchini” alla turchesca soppressi per l’allungamento delle gonne, le nettunesi calzano oggi pianelle di panno rosso o di pelle inargentata, a guisa di sandali ed in luogo del turbante coprono la testa con un tovagliolo di lino che anche questo finisce con guarnizioni di oro, argento e seta a più colori. Con siffatto abbigliamento le donne di Nettuno si vedono in giro verso la sera dei giorni festivi, specie per andare alla Madonna di san Rocco in compagnia dei loro mariti o parenti. Una recente comparsa solenne il costume saraceno delle nettunesi la fece nel banchetto per l'inaugurazione della ferrovia nel 23 marzo 1884. In quell'occasione lo vide Eugenio Checchi che scrisse in proposito: «Le sei giovanette erano sfavillanti in quelle gonne di raso solferino, con guarnizioni d'argento, sormontate da un camiciotto della medesima stoffa ricchissimo di ricami, pure in argento e con quella bizzarra tovaglia in capo di stoffa trapunta. Avevano tutt'e sei il costume di sposa adottato per la circostanza, con monili di perle e ricche collane e la qualità di sposa risulta dal nastro rosso attorcigliato come una treccia nei capelli. Gentilissime tutt'e sei, rispondevano con sorridente disinvoltura alle domande dei curiosi ammirati».

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